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Varlam Tikhonovic Salamov (1907-1982)  


LA MIA VITA CON SALAMOV
                    E L'OMBRA DI 21 ANNI DI GULAG

i n t e r v i s t a 

                    
lrina Pavlovna Sirotinskaja gestisce l'eredità letteraria del grande autore dei Racconti di Kolyma: ecco la sua storia.

Irina Pavlovna Sirotinskaja non è stata solo la compagna più assidua degli ultimi anni di vita di Varlam Tikhonovic Salamov, lo scrittore che passò 21 anni nei Gulag i campi di lavoro sovietici, e sopravvisse per raccontarli nei Racconti di Kolyma.

A lei, che ha curato l'edizione Einaudi del 1999 dei Racconti Salamov, morto nel 1982, lasciò tutto ciò che aveva.

- Quando e come vi eravate conosciuti?

"Nel 1966, il 2 marzo. È una data che non posso dimenticare: anche adesso in quel giorno cerco sempre di visitare la sua tomba. Leggevo molto il samizdat, la letteratura del dissenso, e quindi conoscevo alcuni dei suoi racconti. Mi avevano fatto una grande impressione. Con me lavorava un'amica la cui madre conosceva bene Varlani Tikhonovic, che mi fu presentato. Lui aveva 59 anni, io 33. Ero sposata e avevo tre figli".

- Come viveva Salamov in quel periodo?

"Non lavorava, viveva di una modesta pensione d'invalidità di 42 rubli. Gli era stata assegnata nel 1957, quando si era ammalato per le percosse subite nei Gulag di Kolyma.
Per arrotondare scriveva recensioni, finché più tardi lo Stato gli riconobbe un'indennità di 72 rubli per i dieci anni passati al lavoro forzato in miniera.
In vita pubblicò solo cinque brevi libretti, in cui le poesie relative a Kolyma erano regolarmente tagliate.
Lui diceva: "Questi libri sono come invalidi, con le braccia e le gambe amputate".
Nonostante le delusioni, però, lavorava tutti i giorni.
Comprava tanti libri. I libri e le mele, ecco i due lussi che si concedeva. 
Per il resto, sembrava non aver bisogno di niente".

- Le parlava del Gulag?

"Non passava giorno che non ne parlasse.
E raccontava in modo meraviglioso, a me sembrava di vedere le cose di cui parlava. Parlarne con me, diceva, lo aiutava a risvegliare i ricordi. Ecco perché sull'ultimo libro di racconti scrisse: "A Ira, autrice con me di questa raccolta".

- Su cosa si fondava la vostra amicizia?

"Credo che in fondo fossimo molto simili, eravamo stati entrambi educati al culto della letteratura russa dell'Ottocento.
D'altra parte ai nostri tempi romanzi gialli non ce n'erano, a dodici anni leggevo Gogol', Tolstoj e Dostoevskij".

- Salamov era stato sposato due volte. Che cosa provò nel ritrovarsi solo all'incombere della vecchiaia?

"La sua prima moglie era stata Galina Ignatevna Gul'c, che aveva conosciuto prima di finire a Kolyma. 
Dopo l'arresto iniziarono a scriversi, ma non vedersi per 17 anni rese le cose molto difficili.
I veri problemi, però, iniziarono quando Varlam Tikhonovic tornò da Kolyma.
Lei non voleva che lui raccontasse la sua storia alla figlia Lena, che andava all'Università, era iscritta al Komsomol (la gioventù comunista, ndr) e sui moduli d'iscrizione aveva scritto che il padre era morto".

- Sembra una storia molto crudele...

"Forse bisognerebbe mettersi nei panni di una donna che aveva tanto a lungo atteso il marito e non capiva perché lui, tornato a 53 anni da Kolyma, volesse solo scrivere del Gulag e non costruirsi una vita normale.
Quando Varlam Tikhonovic ottenne la libertà, Stalin era morto da poco. Tre anni dopo, quando Salamov fu riabilitato, Galina ricevette da lui una lettera che diceva: "Le nostre strade si dividono". Si separarono e lui non vide mai più né lei né la figlia".

- Negli ultimi anni, Varlam Tikhonovic Salamov visse in un ospizio. Era una cosa che gli pesava?

"Moltissimo. Ma non c'era stata altra soluzione. Avrei dovuto stare con lui tutti i giorni, di fatto abbandonare mio marito e i miei figli, e questo non potevo farlo. Un giorno mi chiese che cosa doveva fare. Risposi che forse avrebbe dovuto pensare alla casa di riposo.
Lui s'infuriò, rispose:
"No, piuttosto sposo la prima che capita!".
Ma aveva 79 anni, che potevamo fare? 
Morì a 82 anni, in una mattina di gennaio piena di sole". 

FULVIO SCAGLIONE


Vas'ka Denisov, ladro di porci
da I racconti della Kolima

(...)
Vas'ka scaricò il ceppo accanto alla veranda, con manopole si scrollò la neve dagli stivali di feltro bussò alla porta. La porta si schiuse appena e Vas'ka entrò. 

Una donna anziana, con addosso un pellicciotto di montone sbottonato, il capo scoperto, guardava con aria interrogativa e spaventata.

"Vi ho portato un po' di legna" disse Vas'ka, stirando a fatica la pelle gelata del viso nelle pieghe, di un sorriso. "Vorrei parlare con Ivan Petrovic".

Ma Ivan Petrovic in persona era già saltato da dietro una tenda.
" Bene" disse. "Dov'è? ".
" In cortile " rispose Vas'ka.
" Allora aspetta un attimo, la segheremo subito, mi metto addosso qualcosa ". Ivan Petrovic cercò a lungo i guantoni. 
Uscirono sulla veranda e senza cavalletto, stringendo il ceppo tra le gambe, tenendolo sollevato, lo segarono. La sega non era allicciata, aveva un filo pessimo.
" Uno di questi giorni ripassa" disse Ivan Petrovic. " L'affilerai. Per il momento eccoti la scure. Poi la metterai a posto, solo non lasciarla nel corridoio, portacela direttamente in casa ".
A Vas'ka girava la testa per la fame, ma spaccò tutta la legna e la trascinò in casa.
" Be', è fatta" disse la donna uscendo da dietro la tenda. " E' tutto ".

Ma Vas'ka non se ne andava e scalpicciava accanto alla porta. 
Ivan Petrovic spuntò fuori un'altra volta.

" Senti un po', " disse " di pane non ne ho, e anche la minestra l'abbiamo portata tutta ai maiali, adesso non ho niente da darti. Ripassa la settimana prossima... ".
Vas'ka taceva e non se ne andava.
Ivan Petrovic frugò nel portafoglio.
" Eccoti tre rubli. Solo per te, per della legna così. Ma di tabacco non ne ho, lo capisci da solo, il tabacco oggi costa molto".

Vas'ka si ficcò in tasca la banconota gualcita e uscì. 
Con tre rubli non si sarebbe potuto comprare nemmeno un pizzico di machorka.

E continuava a starsene sulla veranda. La fame gli dava la nausea. I maiali si erano mangiati la sua minestra e il suo pane. Vas'ka estrasse la banconota verde, la strappò in tanti pezzetti. I brandelli di carta, sostenuti dal vento, si trascinarono a lungo sulla neve lucente, levigata. E quando anche gli ultimi frammenti scomparvero nella nebbia bianca, Vas'ka scese dalla veranda. Vacillando lievemente per la debolezza si avviò - non a casa, però, ma all'interno del villaggio; continuò a camminare, a camminare: verso palazzi di legno a uno, due, tre piani...

Salì sul primo terrazzino d'ingresso e diede uno strattone alla maniglia della porta. La porta scricchiolò e si aprì pesantemente. Vas'ka entrò in un corridoio scuro, debolmente illuminato da una fioca lampadina. Passò accanto alle porte degli appartamenti. Alla fine del corridoio c'era un ripostiglio e Vas'ka, spingendo la porta con il corpo, la spalancò e oltrepassò la soglia.

Nel ripostiglio c'erano sacchi d'aglio, forse di sale. Vas'ka ne lacerò uno: granaglie. Indispettito, di nuovo infervorandosi tutto, urtò un sacco con la spalla rovesciandolo da una parte: sotto i sacchi c'erano dei maiali congelati. Vas'ka lanciò un grido di gioia - ma non aveva abbastanza forze per strappare anche un solo pezzo di carne. Più avanti, però, sotto altri sacchi, c'erano dei porcellini, e allora Vas'ka perse la testa. Ne tirò fuori uno e, tenendolo in braccio come una bambola, come un bambino, si diresse verso l'uscita. Ma dalle stanze stava già venendo fuori gente, nel corridoio c'era ormai una grande animazione.
Qualcuno gridò: " Fermo!" e si lanciò verso le gambe di Vas'ka. Ma Vas'ka saltò via e, tenendo stretto tra le braccia il porcellino, corse fuori sulla strada. Gli abitanti della casa gli corsero dietro. Qualcuno gli sparò, qualcun altro strepitava come un ossesso, ma Vas'ka volava, senza vedere nulla. E dopo alcuni istanti si rese conto che le gambe lo stavano portando da sole verso l'unico ufficio statale che conosceva nel villaggio: verso la Direzione delle missioni vitaminiche, per una delle quali anche Vas'ka lavorava come raccoglitore di mugo.

L'inseguimento fu breve. Vas'ka salì la scaletta dell'ingresso, spintonò il sorvegliante di servizio e si precipitò per il corridoio. La folla degli inseguitori rumoreggiava alle sue spalle. Vas'ka si lanciò nello studio del responsabile dell'attività culturale e ne schizzò fuori da un'altra porta - entrando nella stanza delle riunioni. Oltre non si poteva andare. 
Solo in quel momento si rese conto di aver smarrito il berretto. Ma il porcellino congelato era sempre lì tra le sue braccia. Vas'ka lo depose sul pavimento, spostò le massicce panche e barricò la porta. Ci trascinò contro pure il pulpito-tribuna. Qualcuno diede degli scossoni alla porta, poi scese il silenzio.
Allora Vas'ka sedette sul pavimento, afferrò con entrambe le mani il porcellino, il porcellino crudo, congelato, e cominciò a rosicchiarlo, a rosicchiarlo...

Quando chiamarono il reparto di tiratori e le porte vennero aperte, la barricata smontata, Vas'ka aveva fatto in tempo a mangiarsi metà del porcellino.

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